Una locomotiva in viaggio… su un binario morto? È l’interrogativo che cominciano a farsi in molti, da queste parti, dopo la pubblicazione degli ultimi dati dell’Osservatorio Economia e Territorio CNA sullo stato di salute del sistema produttivo che storicamente trascina il Pil italiano, ovvero quello di Veneto, Lombardia ed Emilia Romagna.
Si perché il
verdetto è impietoso: in 10 anni (2011-2021) la crescita nelle tre regioni è stata
pari a zero. Colpa del Covid? Ni, nel senso che il risultato è più che altro
figlio di problemi che ci trasciniamo da tempo, con guerra e pandemia che hanno
solo contribuito alla mazzata finale. Tantopiù che i nostri “competitor” su
scala internazionale, ovvero le maggiori regioni europee con tessuto produttivo
trainato dalle piccole e medie imprese, chiudono il decennio con numeri più che
dignitosi: +14% la Baviera, +13% il Baden-Württemberg e +13% le Fiandre,
a cui si accodano la Comunità Valenciana e la Catalogna (+5%) oltre ai Paesi
Baschi (+3%). Cosa c’è quindi realmente dietro a questi risultati? Lo
chiediamo alla presidente di CNA Veneto Ovest Cinzia Fabris.
«Semplicemente sono la fotografia sbiadita di un sistema
Paese rimasto fermo a 10 anni fa. Un Paese in cui l’unica cosa che cambia sono
i governi, e ne abbiamo avuto purtroppo l’ennesima conferma proprio negli
ultimi mesi, con la fine del settimo esecutivo nato nello stesso arco temporale
considerato dall’indagine. Il problema è che anche se il macchinista passa la
mano, noi restiamo fermi, come se nessuno volesse prendersi la responsabilità
di dare l’accelerata che tutti attendiamo per uscire finalmente dalle secche
della crisi».
«Credo rappresenti un piccolo campanello d’allarme,
perché in parte mina le certezze di un territorio storicamente molto convinto
dei propri mezzi e della capacità di cavarsi d’impaccio con le proprie sole forze
di fronte alle peggiori difficoltà. Ma dall’altra parte va detto che siamo
sempre il Veneto, e nonostante una crescita al palo – se considerata su scala globale
– nel decennio alle spalle abbiamo comunque visto crescere il nostro peso sul
sistema Paese, con un aumento del contributo al Pil nazionale di quasi un punto
percentuale rispetto al 2011. Questo è il segno di un’Italia che altrove soffre
ancora di più, ma voglio girarla in positivo: vuol dire soprattutto che il
viaggio della ripartenza deve iniziare per forza da qui».
«Tantissime cose, in primis la tenuta della rete di
piccole e medie imprese che continuano a mantenere comunque competitivo il
nostro tessuto economico. Imprese che certamente soffrono soprattutto il calo
dei consumi dell’ultimo biennio e la conseguente contrazione del Pil regionale,
ma che non smettono di investire per crescere, come indicano i dati parziali
che abbiamo a disposizione sul primo trimestre del 2022: in Veneto il numero di
aziende, l’export e l’occupazione sono cresciute a ritmo molto più deciso
rispetto alla media nazionale».
«Sì, si possono effettivamente scorgere gli indizi di un
possibile deterioramento di questo trend, soprattutto per le perduranti
incertezze sulla scena internazionale. Ma abbiamo anche tra le nostre mani tutti
gli strumenti per non farci cogliere impreparati. Ancora una volta la soluzione
passa per la capacità di fare buona impresa, che vuol dire perseguire un
approccio al modello produttivo non più passivo rispetto ai cambiamenti, ma in
grado di cogliere tutti i segnali in arrivo dal mercato per mettere in campo
una strategia adatta a qualsiasi scenario. Al centro di tutto questo una
consapevolezza: si vince solo se si punta sulla crescita, non sulla
sopravvivenza. Perché crescere significa anche saper passare attraverso le
difficoltà, per uscirne ancora più forti».
«Che si batta per favorire la partecipazione, prima di
tutto. C’è bisogno che tutti si sentano rappresentati, pur nelle diversità di
vedute che sono la linfa di un sistema democratico. Ma una politica che parla ad
appena un italiano su due, stando ai dati drammatici dell’astensionismo, è una
politica che ha perso in partenza. E poi naturalmente stabilità, che non vuol
dire andare sempre tutti d’accordo. Al contrario significa mettere a frutto il
confronto con una visione che va oltre il consenso immediato, per un bene molto
più importante».
«Ed è per questo che c’è ancora così tanto bisogno delle
associazioni. Noi siamo la prima garanzia di stabilità richiesta dalle
categorie che tuteliamo, perché non rispondiamo né a colori né a ideologie o
correnti alternate. Il nostro compito è condividere gli obiettivi, misurare le
distanze che mancano per raggiungerli e continuare ad andare avanti un passo
dopo l’altro, sorvegliando le istituzioni perché a non smettano mai di remare
dalla nostra stessa parte. Ecco perché abbiamo bisogno noi per primi di crescere:
oggi c’è un vuoto di rappresentanza che un sistema associativo sano può
finalmente contribuire a colmare. Tornando a fare il bene della stessa politica».